La scalata del monte Rtanj
Nel nostro girovagare in Serbia molto spesso veniva menzionato il monte Rtanj, dalla peculiare forma piramidale. Amici e conoscenti ce ne hanno spesso decantato l’energia particolare, che si avverte fino a chilometri di distanza. Le storie a proposito della sua forma piramidale sono numerose, ma quella che ci ha divertito di più parla di una civiltà aliena che ha installato attorno al globo terrestre un grande numero di piramidi, tra cui Rtanj, funzionanti come stabilizzatori dell’energia terrestre. In questa storia, le piramidi sono collegate tra loro e una di loro, enorme e ricoperta di pietra bianca, giacerebbe sul fondo del mare in corrispondenza al Triangolo delle Bermude, emettendo un fascio di energia potentissima.
Non vogliamo entrare in merito alle storie degli alieni, quel che è certo invece, è che il monte Rtanj sta acquistando una popolarità sempre maggiore come meta turistica, anche per i suoi magnifici dintorni. Molti erboristi vengono in queste zone a raccogliere tipi di erbe che crescono solo qui e con cui si confeziona la sua celebre tisana che beviamo regolarmente anche noi.
Trovandoci nell’immediata prossimità della montagna, non potevamo di certo mancare l’occasione di salire sulla sua vetta. Così, tramite il sito ufficiale dei “Camminatori serbi” ci siamo informati sul miglior modo di salire fino al picco e sull’equipaggiamento da portare. La cima è situata a 1600 metri e il dislivello da superare sarebbe stato di 1000 metri: volevamo andarci preparati. Secondo le indicazioni del sito, il sentiero più facile seguiva il versante sud della montagna e così abbiamo posteggiato Rocco all’altezza della miniera Unimer di Mirovo e abbiamo preso il sentiero che iniziava dall’altra parte della strada. In realtà quello era il sentiero a nord, il più arduo, ma noi ancora non lo sapevamo. Con il nostro zainetto pieno di frutta, i nostri bastoni da passeggio e il fido Numi abbiamo preso la salita con spensieratezza.
L’inizio è stato blando: il sentiero attraversava prati pieni di fiori, dai quali si vedeva la corona rocciosa del monte e i boschi ripidi che ci separavano dalla cima. Un amico vi era andato il giorno precedente e ci aveva detto che la salita sarebbe durata poco più di due ore. Non ci sembrava molto realistico percorrere quel dislivello boschivo in così poco tempo, ma non ci abbiamo dato troppo peso. Poco dopo l’entrata nel bosco, il sentiero ha iniziato a farsi sempre più ripido e, soprattutto, scivoloso. L’umidità del versante nord aveva creato un sottile strato di fanghiglia, coperta da grandi e piccoli sassi, che cedeva sotto le scarpe e ci faceva scivolare all’indietro. Le ore passavano e, nonostante le pause, ci sentivamo sempre più provati, ma non abbiamo di certo mollato. A Rtanj eravamo venuti e sulla cima saremmo arrivati.
Qui e là lanciavamo occhiate al sottobosco, per adocchiare qualche buon fungo, e regolarmente esploravamo il paesaggio sottostante con il nostro binocolo. La vista su vallate, monti e colline coperte di verde a perdita d’occhio era davvero spettacolare. Numi saliva lentamente, cauto e affascinato dagli odori del bosco. La vegetazione era passata dal faggeto alla pineta, più ci innalzavamo. Il sentiero era segnato con cura e continuava a inerpicarsi tra rocce, tronchi e arbusti. Ormai ci eravamo resi conto che la via più facile doveva trovarsi da qualche altra parte.
Il bel tempo di fine mattinata, che aveva accompagnato la nostra partenza, si era fatto più instabile, con passaggi di nuvole, che ci sembrava quasi di poter toccare e con folate di vento freddo. Siamo arrivati alla cresta solo dopo quasi tre ore e mezza di ripida e sdrucciolevole salita. Un cartello indicava che ci restava da percorre un chilometro per raggiungere il culmine della piramide.
Là sopra si trovano i resti di una cappella fatta costruire dalla vedova del fondatore della miniera di Mirovo. Qualcuno aveva fatto circolare la leggenda metropolitana secondo cui sotto la cappella fosse nascosto dell’oro e negli anni ’60 qualche malandrino ha pensato bene di cercarlo, distruggendo la cappella. L’oro non c’era, mentre sono rimaste le rovine e una croce.
Sopra le nostre teste vedevamo ruotare in cielo dei falchi, che avevano fatto il loro nido tra quelle rocce. Ormai esausti, abbiamo preso l’ormai brulla e sassosa via della vetta, fermandoci più volte ad ammirare il panorama, visibile a 360 gradi. Una vista magnifica su valli e colline, dipinta di mille tonalità di verde. A poche centinaia di metri dal cucuzzolo della piramide ci siamo fermati per una pausa e in quel momento abbiamo deciso di non proseguire oltre. La nostra esperienza della salita era completa così.
Numi sembrava aver intuito le nostre intenzioni, perché si era lanciato tra le rocce in discesa e ci attendeva più in basso. Dopo un ultimo sguardo all’orizzonte, abbiamo ripreso il cammino, con cautela e attenzione per non scivolare. Sembrava un’opera facile, ma le scarpe e le nostre gambe stanche e tremolanti più volte ci hanno fatto slittare e cadere, per fortuna senza conseguenze, a parte una bella sporcata ai vestiti. A tratti ci chiedevamo come avessimo potuto salire lungo quel sentiero così scosceso.
Il sole, nel frattempo, aveva iniziato a calare a occidente e le nostre giacchette antivento non erano di troppo. Piano, piano, abbiamo riconosciuto il nostro sentiero e abbiamo raggiunto nuovamente il camper, non prima di aver raccolto alcuni bei funghi al passaggio.
Le nostre gambe, dopo sette ore di cammino molto impegnativo, erano diventate di burro e i sedili di Rocco ci sembravano paradisiaci. Senza indugio abbiamo ripreso la strada per Sokobanja, dove il tramonto stava arrossando il cielo, proiettando una luce calda sui prati e le colture. Abbiamo chiaramente sentio l’arrivo dell’autunno, con un sole meno scottante e i boschi e i campi di granoturco che iniziano a tingersi di giallo.
Al calar del buio samo approdati al nostro consueto rifugio sulle alture di Ozren e il sonno si è rapidamente impossessato di noi, stanchi e soddisfatti com’eravamo del nostro exploit sportivo.