Čučale
Sembra incredibile, eppure è proprio così: da quando siamo approdati in Serbia, nel villaggio natale di mio padre, non abbiamo più avuto un minuto libero a disposizione.
In questo bucolico villaggio della Serbia meridionale, chiamato Čučale, integrato tra verdi colline di boschi e campi, vivono in tutto e per tutto 8 persone, la cui età media si aggira sugli 80 anni. Che tutto sia relativo, già lo sapevamo, ma qui viene confermato dal fatto che la coppia settantenne del villaggio viene chiamata “giovane” dal resto dei suoi abitanti, poiché effettivamente, paragonati agli ultra 80enni e 90enni, sono ancora vispi e dinamici. E noi? Noi siamo addirittura i ragazzini di turno, dei bambini venuti a portare un po’ di gioia e colore.
Da quando siamo qui è un continuo viavai di persone che passano a trovarci per scambiare quattro chiacchiere. Queste visite non sono mai brevi, perché tradizionalmente si offre rakija, caffè o birra e si ricostruisce meticolosamente il mondo a chiacchiere e, per come sta andando attualmente, ce ne vuole di tempo per rifarlo! Oppure siamo noi ad andare dagli abitanti del villaggio, le cui case sono tutte costruite lungo un piccolo ruscelletto che attraversa Čučale. In qualche modo io sono parente di tutti quanti, non so bene neanch’io in base a quale biforcazione dell’albero genealogico. Sicuramente, ci sono avi comuni in gioco, ma non riesco mai a capire in che modo. In serbo, ogni graduazione di parentela e ogni ruolo nella famiglia ha una propria denominazione. Se in italiano per esempio, lo “zio” è il fratello della madre o del padre, in Serbia è chiaro da che ramo proviene (materno o paterno), perché si usano parole diverse. Ecco, quando iniziano a spiegarmi come siamo tutti connessi a livello familiare, mi perdo immediatamente, perché non conosco le parole necessarie per poter visualizzare i gradi di parentela. A me, sinceramente, basta sapere che sono in qualche modo parente di tutto Čučale!
Sono tutti felici di saperci qui: abbiamo portato un po’ di vita in questo villaggio che ha senz’altro conosciuto tempi migliori, in cui le famiglie numerose erano all’ordine del giorno. Man mano, gli abitanti più giovani sono andati a cercare vite più comode in città e questo villaggio, così come molti altri, si è spopolato, lasciando indietro coloro che non se la sentivano di abbandonare la propria terra: i contadini che hanno l’agricoltura nel DNA. Questi pochi rimasti, per l’appunto.
Mio padre Petar è uno di quelli che è partito. Ha studiato medicina a Belgrado, specializzandosi in anestesiologia in Germania, dove ha dislocato la sua neo-costituita famiglia, me bebé inclusa. Sono così cresciuta all’estero, tra due culture molto diverse tra loro: la Serbia e la Svizzera. Sono una “seconda” dei Balcani che parla perfettamente le tre lingue nazionali svizzere. Sono le stamberie dei tempi moderni.
È solo negli ultimi 20 anni che ho iniziato a frequentare con maggiore attenzione e interesse la Serbia, scoprendovi veri e propri tesori. Innanzitutto il paesaggio. È semplicemente stupendo.
Qui l’industrializzazione dell’agricoltura non è passata e il risultato è un susseguirsi di colline boscose e di piccoli appezzamenti coltivati, attraversati da fiumi e ruscelli in buona parte ancora molto puliti. Alcuni rilievi sono montagnosi e imbiancati di neve fino a maggio inoltrato, con ricchezza di acque e di boschi selvatici. Sotto al cielo, si stende il colore verde del fogliame, in centinaia di sfumature cangianti con il variare delle condizioni atmosferiche e del sole. L’aria è pulita, carica di energia, fa venire voglia di camminare e di respirare a pieni polmoni.
Poi, e soprattutto, la gente. Anche se i serbi si lamentano della vita che è cambiata, del fatto che non ci si frequenta più come una volta e che nessuno ha più tempo da dedicare alle amicizie, trovo che la qualità delle relazioni sia rimasta ancora preservata. Ci si frequenta ancora (almeno qui, nelle zone rurali), ciascuno è parte integrante di un tutto più grande e ciascuno gioca il suo ruolo nel quadro più ampio. È una vera e propria comunità, dove i valori come l’ospitalità, l’aiuto reciproco e la fiducia riposta nell’altro sono tuttora vissuti.
Siamo qui da 10 giorni e abbiamo avuto modo di socializzare abbondantemente con tutti gli abitanti di Čučale. Mio padre e mio zio Dobro hanno invitato a una festicciola anche i famigliari che vivono in città. Abbiamo passato un week-end molto festoso, in cui tutte le generazioni si sono mescolate e hanno interagito. Ho rivisto i miei cugini e alcuni dei loro figli: abbiamo pianto insieme per le perdite premature di mia zia Milka e quella di mio cugino Milos, abbiamo riso giocando a pallone con il più giovane, Vuk, di 4 anni. Ci siamo raccontati le nostre vite, senza dimenticare di mangiare per tre e bere un’infinità di caffè… insomma mi sono intrisa di vita famigliare.
Stiamo per lasciare Čučale. La gente del villaggio ci ha ricoperto di doni: Ivka ci ha regalato calze di lana grezza fatte su misura a mano, Marica ci ha regalato funghi porcini (che crescono in grande quantità in questa regione) e passata di pomodoro al naturale. Milija ci ha donato la sua ottima marmellata di prugne. Quello che però più porteremo con noi sono i momenti che abbiamo condiviso insieme. Quelli sono, e restano, impagabili.