Pensieri all’alba
La libertà non si possiede. Non “ho” una libertà. La libertà è uno stato esistenziale: “sono” libero. Sono libero quando mi assumo la responsabilità di ciò che sento, penso e di come mi comporto. Non c’è nessuno, là fuori, che abbia il potere di farmi sentire in un determinato modo. È sempre una mia scelta, il modo in cui rispondo a una situazione. La scelta può anche essere inconsapevole, come avviene nella maggior parte dei casi, ma resta comunque mia.
Non solo: sono responsabile anche di tutto quello che accade intorno a me. E, e questa è grossa da digerire, di tutto quello che accade, sempre e ovunque. Per quanto possa sembrare assurdo, è proprio questa consapevolezza a rendermi totalmente libero. Non c’è qualcosa, o qualcuno là fuori, che mi limita e mi costringe. Sono libero.
Va fatta una distinzione: responsabilità non vuol dire colpa. Se incappo in un incidente stradale, o mi ammalo, o cade un meteorite e distrugge la mia casa, ne sono responsabile, ma non è colpa mia.
Sono stato cresciuto in una cultura fortemente cattolica, in cui i concetti di colpa e di peccato sono da secoli usati per scopi di sottomissione e di controllo delle persone, e non certo per renderle più libere e consapevoli. Questa strategia si è incrostata in profondità nelle menti, ma anche nei corpi, fino a un livello cellulare. Di fronte a qualsiasi situazione, l’istantanea reazione condizionata è di cercare un colpevole, di distinguere tra santi e peccatori, tra buoni e cattivi. In una cultura di questo genere, essere responsabile significa essere colpevole. Tutte le religioni, con il loro corredo di riti e di convenzioni, si sono allontanate dalle origini mistiche, di illuminazione, da cui hanno avuto origine, per diventare perversi sistemi di controllo e di potere. Non per nulla, sono andate a braccetto con militari e politici, che condividono lo stesso obiettivo.
La responsabilità mi porta a maggiore consapevolezza e mi allontana dal vittimismo. Invece di passare il tempo a giudicare, a valutare se una persona, una cosa, una situazione, sia benevola o malevola, giusta o sbagliata, santa o peccatrice, posso semplicemente essere presente a ciò che accade, così come accade. Non ho bisogno di fabbricare dei castelli di pensiero, con relative analisi e preoccupazioni, né di reagire con emozioni che scaturiscono da percezioni di buono, cattivo, sicurezza o pericolo.
Un mio maestro, Veeresh, ripeteva spesso: “In realtà non esistono i problemi. Esistono solo fatti”. Una situazione è come è, chiamarla “problema” significa che l’ho già classificata come negativa, come qualcosa che mi crea un ostacolo. E lo stesso accade se la etichetto come “opportunità”, intesa come positiva. Questa abitudine a classificare celermente ogni aspetto della vita come buono o cattivo, anche se ha origini istintuali, legate alla necessità di riconoscere ed evitare istantaneamente i potenziali pericoli, dall’altra impedisce di essere presenti alla situazione, accettandola per come è.
C’è una piccola storia che aiuta a capire come funziona questo meccanismo. Molti e molti anni fa, viveva un contadino che possedeva un meraviglioso cavallo bianco. Il cavallo era così bello e maestoso da suscitare persino l’invidia del re, il quale fece al contadino un’offerta molto generosa per comprarlo. Il contadino rispose: “Il cavallo ed io siamo molto uniti, e non desidero venderlo”. Pochi giorni dopo, il cavallo scomparve. La gente del villaggio si aspettava di vedere il contadino disperato, e con grande sorpresa, lo trovarono calmo e intento alle sue faccende. “Ma come, è sparito il tuo prezioso cavallo, e tu non dici niente?!”. Ma il contadino rispose: “Non posso dire se sia un bene o un male. Stiamo a vedere”. Passati alcuni giorni, il cavallo fece ritorno. Nel frattempo, aveva raccolto attorno a sé un branco di altri bellissimi cavalli selvaggi, e la gente del villaggio si congratulò con il contadino per la sua fortuna. Ma quello rispose: “Non posso dire se sia un bene o un male. Stiamo a vedere”.
Il contadino aveva un figlio, un bel giovanotto prestante, che lo aiutava nel lavoro e che amava molto cavalcare. Mentre stava domando uno dei cavalli selvaggi, cadde malamente e restò zoppo. Di nuovo la gente disse: “Che sfortuna! L’unico figlio, adesso è rimasto storpio! Che disgrazia!”. “Non posso dire se sia un bene o un male. Stiamo a vedere”, fu la risposta. Pochi mesi dopo scoppiò la guerra con il reame vicino, e vennero arruolati tutti i giovani della regione. Il figlio del contadino non venne preso, perché zoppo. E la gente: “Che fortuna! A noi poveretti hanno portato via i figli, e chissà se torneranno mai a casa!”. “Stiamo a vedere”, e il contadino continuò con la sua vita, calmo e tranquillo.
Etichettare le situazioni non serve. Sono fatti, e nel momento presente non sono né buoni, né cattivi. Nella pratica della mindfulness, uno degli aspetti principali consiste proprio nell’essere consapevoli di questo meccanismo reattivo di etichettatura di ogni aspetto della vita.
Quando prendo la responsabilità e considero ogni situazione come un semplice fatto, mi si apre un mondo di possibilità. Gioco la mia parte consapevolmente. Non dico più: “Quella persona mi ha fatto arrabbiare”. Piuttosto, posso dire: “Quella persona ha avuto questo comportamento, e io ho scelto di reagire provando rabbia”. Ho scelto, non ho subito. Posso anche scegliere di non reagire, o di farlo in un altro modo. Sono libero. Il cervello, quando è sottoposto ad ansia, preoccupazione o paura croniche, letteralmente si contrae, e non sono più in grado di ragionare al meglio delle mie possibilità. Entro in modalità reattiva, istintiva, di sopravvivenza. Sono totalmente pilotabile da chi sa sfruttare questo funzionamento. Cerco di trovare qualcuno, o qualcosa, che mi salvi, mi protegga, mi allontani da queste sensazioni spiacevoli. Così “compro” un dio, un politico, un prodotto, un’ideologia, uno status, un’identità, una squadra sportiva, una droga, una qualsiasi cosa che mi aiuti a sentirmi bene, almeno per un po’. Sono completamente alienato a me stesso, letteralmente in esilio da me stesso. Perdo la capacità di prendermi cura di me e delego. Delego ai medici e agli allenatori il compito di gestire il mio corpo, agli psicologi di curare la mia mente, allo stato di occuparsi della mia salute, istruzione, sicurezza, alle banche di gestire le mie finanze, ai preti della mia spiritualità. Non c’è da meravigliarsi che poi la vita sembri vuota e senza senso: l’ho data da vivere ad altri, al posto mio.