La fabbrica delle verdure
Oggi ci siamo spostati 150 chilometri a sud, su e giù per la tortuosa strada lungo la costa, fino al Parco naturale di Cabo de Gata, che abbiamo attraversato per arrivare fino alla Playa de Los Genoveses. Il posto è davvero magnifico. Il Parco è cosparso di erba verde, agavi, arbusti e macchie di eucalipti e palme sparse qua e là. Le sue pietrose alture coniche scendono fino al mare in scogliere che dividono le baie sabbiose, su cui si rompono le onde di un mare blu profondo. Il verde ci ha sorpresi, perché durante il viaggio in Spagna ci eravamo abituati a paesaggi pietrosi e aridi.
Un aspetto che ci colpisce particolarmente è la sterminata distesa di serre che ricopre quasi ogni superficie piana disponibile.
Ci siamo presi il tempo per osservare come sono organizzate le coltivazioni. I terreni sono dapprima spianati dai macchinari, che ammucchiano i resti di tubi di irrigazione, reti, corde, pellicole di copertura, sacchi, contenitori, cassette delle colture precedenti, insieme allo strato superiore del terreno, formando dei dossi di terra arida farcita di plastica a delimitare i confini delle proprietà.
Il terreno, di per sé già impoverito, viene trattato con antiparassitari, fungicidi ed erbicidi, in modo da prevenire ogni eventuale possibilità di malattie. Infine, viene cosparso di fertilizzanti chimici, perché non ha più alcuna risorsa propria, adatta al nutrimento delle piante.
Se le colture sono all’aperto, come le insalate in questo periodo, i campi vengono ricoperti con uno strato di terreno fertilizzato, per dare una base alle piante, e da teli di plastica per prevenire la crescita di erbe selvatiche. Dall’alto, i campi sembrano disegnati al computer: file e file strette di piantine tutte identiche, collocate in modo da ottimizzare la coltura e il raccolto.
Le serre, invece, sono di vari tipi: da quelle più stabili, con strutture metalliche e pannelli trasparenti, a quelle fatte di teli o reti di nylon. Ricoprono ettari interi e all’interno abbiamo potuto vedere i filari di piante, in particolare pomodori, ma anche alberi da frutta o addirittura vigneti.
Quello che colpisce è l’assenza completa di qualsiasi altra forma di vita vegetale. Ci sono solo le piante da produzione, ibride e identiche, ottenute con selezione genetica per produrre ortaggi che sembrano fatti con lo stampo, uguali nella forma e nelle dimensioni e per resistere ai trattamenti fitosanitari. Perfino le vie d’accesso e di transito nelle proprietà sono religiosamente spruzzate con diserbanti, per non avere il fastidio di tagliare le erbacce o correre il rischio che qualche insetto nocivo vi si annidi. Queste serre e colture danno la netta impressione di essere organizzate come una vera e propria fabbrica, che trasporta e vende la frutta e la verdura in tutta Europa.
Con un approccio del genere non resta nulla del ciclo naturale autorigenerante. Si cancella meticolosamente ogni forma di vita che abita naturalmente un terreno fertile e produttivo. Il sistema richiede un continuo apporto di energia e di risorse principalmente petrolchimiche, come fertilizzanti, carburanti e plastiche. Questo modo di coltivare sarebbe possibile anche sul cemento o sull’asfalto: basterebbe stendere lo strato di terreno appena necessario e trattarlo alla stessa maniera. In questo modo, i coltivatori eliminano ogni rischio naturale e ottengono una produzione sicura, standardizzata per le richieste della grande distribuzione, disponibile in ogni stagione. Sì, perché i pomodori, le melanzane e i peperoni in vendita fuori dalla loro naturale stagione estiva, crescono proprio in serre come queste.
Questi metodi sono diventati una macchina fuori controllo: da una parte aumenta il bisogno di risorse per poter far produrre dei terreni senza vitalità, dall’altra i margini calano, per mantenere bassi i prezzi sul mercato. Ogni anello della catena di distribuzione, dal punto vendita ai trasporti (quasi tutti su camion via terra), passando dai grossisti per arrivare ai contadini, cerca di strappare una fettina di guadagno. Di innovazione e investimenti a salvaguardia dell’ambiente, della salute dei lavoratori e della dignità del lavoro non se parla nemmeno. Anche se un contadino volesse cambiar rotta, per esempio per passare all’agricoltura biologica, dovrebbe affrontare anni di transizione, in cui le sue entrate non sarebbero garantite. Ecco come si mantiene lo status quo.
Noi stessi siamo grandi consumatori di verdura e frutta fresca e conoscevamo già questa situazione, ma osservarla di persona ci ha demoralizzato. La frutta e le verdure ottenute in questa maniera non offrono sostanze nutritive di valore e richiedono un lavaggio meticoloso per tentare di eliminarne i residui chimici potenzialmente tossici. Come se non bastasse, l’impatto sull’ambiente dei prodotti chimici e delle plastiche è estremamente rilevante e sta iniziando a creare problemi di salute pubblica e di danneggiamento dell’ambiente che non possono più essere nascosti o ignorati.
Vogliamo menzionare anche l’acqua? La coltivazione industriale ne richiede una quantità enorme, anche perché un terreno destrutturato e denaturato in quella maniera, incapace di svolgere la sua funzione di drenaggio, necessita di un apporto idrico costante e cospicuo. Le serre servono anche a questo: senza di loro, il sole e il vento disseccherebbero ed eroderebbero costantemente lo strato coltivato. Con i cambiamenti climatici, l’acqua sta diventando una risorsa sempre meno disponibile. Cosa succederà nel prossimo futuro, sarà tutto da vedere.
Durante il nostro viaggio, stiamo incontrando un numero crescente di persone che cercano di uscire da questo circolo vizioso con un approccio all’agricoltura diverso, biologico e attento all’utilizzo consapevole delle risorse. Sembrano pochi, rispetto al numero delle serre che incrociamo ogni giorno, ma ogni persona che sceglie un’altra strada è come una stella che illumina l’orizzonte e non possiamo che ammirarla e sostenerla.